Io so, che tu sai, che io so.

La mia amica S., che recentemente ha scoperto il mio blog e ha iniziato a leggermi, dice che non dovrei vergognarmi di questo angolo, e che dovrei forse sfruttarlo di più. Il punto è che ormai mi sono resa conto fin troppo bene del vizio di questo meccanismo: finisco per sfogarmi, anche solo quel poco, liberandomi di qualche parola che dentro mi avvelena, sapendo che i più non coglieranno il senso, non raccoglieranno la parola chiave in mezzo a tante altre baggianate.

Di fatto, dopo aver scritto qui non mi confido più, anche se so bene che le persone con cui mi aprirei mi leggono. Evito persino di parlar loro apertamente di quanto di sicuro hanno già avuto anticipazione leggendomi, gioco al "so che tu sai" ma faccio finta di nulla, e soprassiedo anche sui miei principali motivi di malessere. Questo circolo vizioso non mi piace, ma non riesco ad estirparlo, è diventato un modus operandi per il mio disagio.

In più, mentre iniziavo a coltivare seriamente l’ipotesi di andare a sedermi su qualche divano comodo, per tentare perlomeno di iniziare a fare il punto su qualcuno dei miei rapporti irrisolti con gli altri e con la mia vita, intorno a me hanno iniziato a sentirsi tutti male. Un monito, forse. Un mesaggio subliminale che mi invita a lasciar perdere i patemi per dedicarmi a problemi più concreti, la ricaduta depressiva di mio padre o il mal di schiena sospetto di mio marito.chiave

Quest’ultimo ha ricominciato a scrivere fitto (chissà che non dica le stesse cose di me) e a nascondere le videate dei suoi files di word al mio passaggio. Anche lì è scattato il meccanismo tarato: una rapida ricerca tra i salvataggi delle fatture elettroniche, e una memoria di ferro ma selettiva (di ferro per ciò che voglio, arrugginita per molte altre cose) per la password, non cambiata in tanti anni. Ora so.

Così ho ricordato che non solo fa male essere letti quando non ce n’è il desiderio, ma anche dà dolore (ri)scoprire gli aspetti nascosti che non avremmo facilmente immaginato tra le pieghe del carattere di chi è più vicino. Io so, che tu sai, che io so.

Però facciamo tutti finta di niente.

Ecco quindi che mi viene in mente il primo libro che vorrei consigliare per l’estate (a Biz lo dovevo, se non altro per gratitudine): La chiave, di Junichiro Tanizaki, già ribattezzato "Un diario che diventa ossessione", inquietante e non così erotico come vuol far apparire l’omonimo film deturpatore girato da Brass.

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2 commenti su “Io so, che tu sai, che io so.

  1. Dentro ognuno di noi lottano due forze contrapposte: la voglia di raccontarci e di parlare di noi, e le resistenze (imbarazzo, vergogna, pudore, riservatezza) che in vari modi ci impediscono di essere franche ed espliciti. Questo avviene senza eccezioni, nel senso che nessuno al mondo può "rompere del tutto il ghiaccio" su se stesso. Questo è il motivo del tuo "io so che tu sai che io so": il desiderio di dire, e il freno a farlo apertamente. Ma dobbiamo tutti accettare anche questo freno, senza violentarci, perché anch’esso fa parte di noi. Col tempo … forse riusciremo ad aprirci di più … ma sempre rispettando i nostri ritmi.

  2. piccic il said:

    OK, cambia le password a casaccio coprendoti gli occhi, getta nel cesso i libri di “psicologia” contemporanea che potresti avere in casa e procurati “La vita interiore semplificata” di J. Tissot. 🙂

    In parallelo, se il salto richiesto è troppo, cerca un bel librino che si chiama “Cambiare sé stessi” di Michael J. Mahoney, o ancora meglio il suo “Constructive psichoterapy” (inedito in Italia). Nessuno dei due è un testo “specialistico”, e sono scritti a distanza di trent’anni l’uno dall’altro, ma entrambi hanno valore.

    Conoscevo l’autore, ed è uno dei pochissimi studiosi contemporanei di psicologia che avrei salvato nel caso di un Nuovo Diluvio Universale.

    Adesso penso a lui, e cerco di ricordarlo più spesso possibile nelle mie preghiere.

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